“Buttare il cuore oltre il limite” è un motto che descrive bene la mentalità dello sportivo. Ma i “tre momenti critici” sono l’avversario che ogni atleta dovrà prima o poi affrontare
Lo sportivo: un’immagine idealizzata?
A guardare l’immagine dello sportivo diffusa da pubblicità e mass media sport e depressione sembrano due concetti diametralmente opposti. Lo sportivo e lo sport sono associati a energia, forza, caparbietà, sfida, sensazioni di benessere e di ebbrezza. Apparentemente nulla a che fare con tutti quei sintomi o segnali tipici della depressione, che è invece contraddistinta da un tono basso dell’umore (e dei muscoli), da mancanza di energia e/o apatia, da chiusura nei confronti del mondo esterno e da sensazioni di disagio e insoddisfazione di sé.
Quali emozioni per lo sportivo reale?
Com’è facile intuire la realtà è molto più variegata e complessa di qualsiasi immagine totalizzante si voglia dare di questo fenomeno. Lo sportivo -e qui mi riferisco allo sportivo professionista, che dello sport ha fatto uno stile e una fonte di vita- nella sua quotidianità vive sia situazioni esaltanti sia aspetti di sofferenza psicologica. Se l’immagine riduttiva della pubblicità riassume il tutto in un “vincere o perdere”, il nocciolo della vita dello sportivo sta invece in quel passo-dopo-passo, in tutte quelle piccole (o grandi) fatiche quotidiane in cerca di un miglioramento di sé, delle proprie abilità atletiche, tecniche e mentali, e infine di un risultato che gli permetta di vivere della sua professione.
Ansia agonistica, l’altra faccia della depressione
Non è un caso che l’ansia agonistica sia uno dei temi in assoluto più trattati nella storia della Psicologia dello Sport. Lo sport è un tipo di gioco in cui il tema centrale è il confronto tra le proprie competenze e gli ostacoli posti dalla situazione. Callois (1985) denominò appunto lo sport come un tipo di gioco agon, cioè un tipo di gioco in cui sono cruciali preparazione, merito e impegno. Quando la sicurezza di sé e l’autostima vengono meno compare l’ansia. L’ansia è infatti la percezione negativa di sé, che consiste nel “non sentirsi all’altezza” delle sfide che si devono affrontare.
In questo senso ansia e depressione possono talvolta essere considerate due facce della stessa medaglia, perché una bassa considerazione di sé -tipica della depressione- porta all’ansia di non sentirsi in grado di affrontare efficacemente le situazioni, in un vero e proprio circolo vizioso.
I tre “momenti” critici dello sportivo
A dispetto delle immagini semplicistiche che vedono tutto “bianco o nero”, lo sportivo sa benissimo che ci sono tre momenti della propria carriera, assolutamente fisiologici e inevitabili, in cui l’aspetto depressivo può essere in agguato. Questi tre momenti sono l’infortunio (chiaramente qui ci riferiamo a infortuni di una certa entità, che lasciano lo sportivo fermo per un periodo considerevole), le sconfitte (disfatte in appuntamenti importanti oppure quando lo sportivo vive una serie consecutiva di sconfitte) e il ritiro dall’attività agonistica. Tutti questi eventi fanno parte della vita normale di uno sportivo: non esiste alcuno sportivo che non si sia mai fatto male sul serio, che non abbia subito sconfitte e che non debba a un certo punto ritirarsi dall’attività ad un’età in cui di solito tutti gli altri comuni mortali vedono fiorire le proprie carriere.
Lo sport e le emozioni di una breve carriera
La carriera di uno sportivo di alto livello è brevissima se si considera che ha una durata stimata tra i 10 e i 15 anni. Infatti per uno sportivo è difficile raggiungere il vertice prima dei 20 anni e ai 35 anni si è già considerati ormai veterani. Cresce quindi la pressione di poter sfruttare quel lasso di tempo per la propria crescita sportiva ed economica. L’infortunio non solo comporta una quota di dolore fisico e mentale per il danno subito, ma mette lo sportivo in una condizione di passività motoria (deve stare fermo) che non gli è connaturata e che suscita il timore di “non tornare più quello di prima” o di non poter utilizzare più la parte interessata come una volta. La tristezza, l’apatia, l’insofferenza sono comuni in questo tipo di situazione.
Le sconfitte brucianti o “i periodi di magra” mettono lo sportivo davanti non solo alla preoccupazione di non essere più capaci di crescere o di mantenere un certo stile di vita (anche economico)e al dubbio sul proprio valore, ma anche di fronte alla sensazione di un proprio limite, che lo sportivo, per carattere, cerca sempre di ‘spostare in avanti’.
Il momento del ritiro è un passaggio delicato per lo sportivo, in quanto comporta l’accettazione di non essere più in grado di poter sostenere certi ritmi e prestazioni di alto livello. Spesso sono il confronto con gli avversari o i risultati insoddisfacenti a far prendere consapevolezza che sia arrivato il momento di “appendere le scarpette”. Definirsi “vecchi” a 35 anni non è mai un’operazione semplice e vi sono molti casi di sportivi che faticano enormemente a salutare l’attività agonistica di alto livello. Talvolta è proprio l’infortunio (dovuto alla forzatura delle proprie capacità per poter restare competitivi) a determinare la presa d’atto del “così non si può più andare avanti”. Una soluzione piuttosto frequente per lo sportivo è rimanere comunque nell’ambiente nella veste di allenatore o dirigente. Questo gli rende più accettabile la di ruolo, e contemporaneamente gli permette di godere di una sensazione di continuità ed utilità rispetto alle generazioni successive.